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Mar
28
2011

Catechesi giovani del 27 marzo 2011- la ricerca della felicità

Ultimo aggiornamento (28 Marzo 2011)
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ALLA RICERCA DELLA VERA FELICITA’ attraverso le Beatitudini del Vangelo di Luca

Qualcuno di noi ha detto:

 “Non so se sto raggiungendo la felicità, di certo stanno accadendo cose che mi rendono  molto più felice degli anni passati. Per  me la felicità consiste nel stare bene con se stessi e raggiungere degli obiettivi, significa non rimpiangere quello che ti sta accadendo ed essere felici per le amicizie nuove e quelle che hai tenuto e non solo amicizie, in pratica felici del proprio presente e non rimpiangere il passato.”

“Credo che in questo periodo mi accontento di poco e trovo la felicità nelle piccole cose, non pensando alla felicità più importante (quello che intende il don). Quando sto bene con me stesso e con gli altri a me basta. Non credo di avere ricordi di momenti in cui sono felice stando da solo.”

“La felicità per me è un sinonimo del divertimento quindi io non ho un obiettivo vero e proprio. Spero in futuro di averlo.”

La vera felicità secondo il Vangelo delle beatitudini di Luca:

Incominciamo a riflettere sull'insieme del bra­no delle beatitudini, conosciuto anche dai non cri­stiani; sappiamo, ad esempio, che Gandhi lo cita­va spesso, e così pure altri personaggi del mondo non cristiano. Quante sono le beatitudini secondo Matteo? Talora si risponde che sono otto, ma se le con­tiamo attentamente ci accorgiamo che in realtà sono nove:

 

«Beati ipoveri in spirito,

perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti,

perché saranno consolati.

Beati i miti,

perché erediteranno la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,

perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi,

perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore,

perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace,

perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia,

perché di essi è il regno dei cieli.


Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguite­ranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia...» (Mt 5, 3-12).

 

Le prime otto beatitudini hanno una forma let­teraria omogenea, sono tutte alla terza persona plurale: beati coloro che sono poveri, afflitti, miti, misericordiosi ecc. La felicità è attribuita a chi ha o vive un determinato atteggiamento. La nona, invece, costituisce un appellativo diretto, alla se­conda persona plurale: beati voi e ricorda la for­ma letteraria delle quattro beatitudini secondo Luca.

L'omogeneità tra le prime otto, inoltre, è sot­tolineata dal fatto che la prima - povertà di spiri­to - e l'ottava - perseguitati per causa della giu­stizia - terminano con la menzione del regno dei cieli. Quasi a dire che il regno dei cieli fa da cor­nice agli otto versetti.

E ancora, le otto beatitudini possono essere di­vise in due gruppi di quattro, perché ciascun grup­po termina con un'altra parola-chiave, la giustizia.

Possiamo allora cercare di comprendere il si­gnificato dei termini più evidenziati — beati, re­gno dei cieli, giustizia - per meglio gustare le sin­gole beatitudini.

 

Per riflettere su alcune parole che riguardano la propria vita:

 

Regno dei cieli

 

Con l'evocazione misteriosa dei 'cieli' si inten­de Dio, colui che abita i cieli: regno dei cieli equi­vale a 'regno di Dio'.

Ma che cos'è questo regno la cui venuta conti­nuiamo a invocare nella recita del Padre Nostro?

Dobbiamo subito sbarazzarci di un equivoco. Parlando di 'regno' pensiamo di solito a un luo­go, al territorio dove qualcuno regna. Tuttavia il termine greco vuoi dire invece l'azione del regna­re; il regno è la regalità, il regnare di Dio.Regno significa un intervento potente di Dio che viene incontro all'uomo.

Ciò che dovremmo cogliere - mentre spesso lo dimentichiamo - è che Dio viene con il suo regnare incontro a noi in maniera sovrabbondan­te, superando tutte le nostre speranze e le nostre attese. E’ dunque facile e insieme difficile rispondere alla domanda: che cos'è il regno?

Perché il regno è vasto quanto vasta è l'azione di Dio su di noi, quanto grande è il suo amore per noi, quanto infinita è la potenza di Dio che si esprime nella storia, al di là della storia, nella eter­nità. È vero che il regno viene incontro ai nostri bi­sogni, ai nostri desideri - desideri di compagnia, di amicizia, di verità, di amore, di salute, di vita -, ma non li interpreta in maniera superficiale, come noi li esprimiamo magari nella preghiera («Signo­re, fammi guarire, fammi star bene!»). Dio acco­glie tutto questo nel suo regno, e però ci dona molto di più.Nessuna forza o attesa umana può delimitare, restringere, circoscrivere, catturare questa azio­ne salvatrice di Dio, che supera ogni attesa e tut­tavia, con amore paterno, previene e colma tutte le attese.

Perciò, domandando 'venga il tuo regno!', noi chiediamo qualcosa che è al di là di ciò che pos­siamo immaginare, anche se tutti i nostri desideri di bene e di gioia vi sono inclusi.

 

Giustizia

 

II regnare di Dio si può descrivere anche come un'azione che rimette ogni cosa al posto giusto, che tiene conto di ogni realtà, rende giustizia a ciascuno e anzi raggiunge la perfetta realizzazione di ogni aspirazione e desiderio, colma ogni attesa e mi­sura umana.

La colma in modo vero, autentico e, in questo senso, l'attività di Dio che instaura il regno si può chiamare, con termine biblico, giustizia, perché ri­mette tutto in perfetto ordine, nella perfetta mi­sura. Non, naturalmente, la misura meschina delle bilance umane, bensì quella sovrabbondante, mi­sericordiosa e salvatrice della bontà divina.

 

Beati

 

Noi consideriamo beati coloro che la Chiesa proclama tali. Il termine 'beati', però, non è inte­so in questo senso dalla pagina evangelica. Sareb­be meglio tradurlo 'felici' per comprendere pie­namente il pensiero di Gesù.

'Beati, felici, fortunati' indica, il valore etico o religioso di una de­terminata situazione o di un determinato atteg­giamento.

Nel nostro brano, Gesù vuole sottolineare il valore di alcune situazioni umane: la povertà di spirito, l'afflizione, la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore, la fame e la sete della giustizia. Potremmo dire che la parola 'beati' costituisce un'antropologia, una descrizione di che cosa è davvero l'uomo felice, vero, autentico.

Le beatitudini sono dunque la proclamazio­ne del modo di essere uomini evangelici, disce­poli autentici di Gesù, uomini e donne fortuna­te e felici.

 

Confrontiamoci con un po’ di domande?

 

Quando recito la preghiera del Padre Nostro, mi accorgo che il Signore, regna davvero su di me?

 La mia vita è a posto? Sono giuste le mie azioni? E io sono felice?

Ritengo molto importante quest'ultima do­manda: sono felice? sono contento, davanti al Si­gnore, della mia vita?

Se rispondo affermativamente, perché sono fe­lice?

E se rispondo negativamente, perché non sono felice?

«BEATI I POVERI IN SPIRITO»

 

Gesù proclama «Beati i poveri in spirito, per­ché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3).

Sul tema della povertà si parla molto, ma lo si comprende poco. La gente pensa che povertà evangelica significhi semplicemente disprezzo dei beni della terra, magari addirittura esaltazione della indigenza, della miseria, dell'accattonaggio. Talora, la ricerca della povertà evangelica diventa causa di tensioni tra i cristiani che si chiedono: dov'è la povertà della Chiesa? In quale modo bi­sogna essere poveri?

 

Chi sono i poveri?

 

II versetto di Matteo è brevissimo: «Beati i po­veri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».

 

1. Chi sono dunque questi poveri? Il termine greco, usato nella pagina evangeli­ca, è ptochòi e ha un corrispondente nella lingua italiana: la parola 'pitocchi', poco usata però espressiva. Essa indica coloro che non hanno nul­la, i mendicanti, gli indigenti, i poveri nel senso materiale.

Nel nostro testo, tuttavia, la parola è accompa­gnata da una qualificazione importante: in spirito.

Gesù, in realtà, riprende la parola 'povero' non nel senso fisico di indigenza totale o quasi totale, che ha nel vocabolario corrente, bensì nei suoi valori interiori che troviamo già nell'Antico Te­stamento. Tipico, in proposito, un passo del pro­feta Sofonia: «Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini; cercate la giu­stizia, cercate l'umiltà» (Sof 2, 3).'Voi tutti poveri della terra viene pure tradot­to (ed è tra l'altro il vero significato del termine ebraico) 'voi tutti umili della terra.

I poveri, gli umili, sono, per Sofonia e per altri profeti dell'Antico Testamento, gli Israeliti che avevano perduto la loro indipendenza politica. Erano umiliati, impoveriti anche esteriormente dalle conquiste straniere, e avevano imparato a vivere la nuova condizione sottomessi alla volontà di Dio, fiduciosi nella sua provvidenza sapendo che Jhwh li avrebbe aiutati.

'Poveri', nell'accentuazione soprattutto di Matteo, indica coloro che non contano sulle proprie for­ze perché hanno ben poco di cui gloriarsi o a cui appoggiarsi, ma sono certi del Signore, della sua bon­tà, della sua potenza, della sua misericordia.

2. Si comprende, di conseguenza, la seconda par­te del versetto: «perché di essi è il regno dei deli».

Avendo posto in Dio ogni speranza, non fi­dandosi di sé, sono disponibili alla buona notizia di Gesù, al suo Vangelo. Chi possiede molto, materialmente e moral­mente, chi è sicuro di sé, barricato nei suoi pri­vilegi e in tutto ciò che ha e che è, teme sempre di essere disturbato, di veder vacillare il trono che si è conquistato. Si chiude allora, come un riccio, di fronte alla proposta nuova e coraggio­sa di Cristo Gesù.

Chi invece ha imparato a non contare su se stesso, chi ha imparato a conoscere la fragilità umana e quella di tutte le realtà cui cerchiamo di aggrapparci, è aperto alla novità del regno. Il re­gno è già suo, in qualche modo, perché è dispo­sto a riceverlo volentieri e con gioia, perché ac­coglie la parola di Gesù come parola che rassicu­ra, conforta, dona serenità e speranza.

L'atteggiamento che il Signore ci chiede

Qual è dunque il messaggio della prima beati­tudine? Per coglierlo meglio vorrei riportare alcune al­tre parole o ricordare alcuni atteggiamenti che nei vangeli designano, pur con termini diversi, colo­ro che sono poveri in spirito. Soprattutto penso a tre occorrenze neotestamentarie. Ovviamente le grandi parole bibliche non sono mai definibili geometricamente o matemati­camente, perché si riferiscono alle profondità del cuore, a tutta la ricchezza inferiore nella quale si vivono simultaneamente diversi atteggiamenti.

 

1. «Se voi non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 2).

I bambini. Il vocabolo greco paidiòn significa quel ragazzino tra i tre e gli otto anni che si fida, che è semplice, col quale si gioca volentieri, che si abbandona in tutto ai genitori, che si lascia fare. Indica dunque l'atteggiamento dell'uomo di fron­te a Dio per entrare nel regno, per riceverlo.

 

2. «Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25).

I piccoli. Il riferimento a questi piccoli non vuol dire che la rivelazione divina viene fatta a chi non ha nep­pure la coscienza espressiva di sé; vuol dire che, a preferenza di coloro che credono di sapere mol­to, di essere ricchi di cultura e di dottrina, di non aver bisogno di imparare alcunché da nessuno, le realtà di Dio sono rivelate a quelli che sanno di sapere poco e di dover imparare molto.

 

3. «Ha guardato all'umiltà della sua serva... ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umi­li» (Mt 19,30).

Gli umili. Coloro che pretendono di primeg­giare, di spingere, di farsi largo schiacciando gli altri, non sono prediletti a Dio. Lo sono, al con­trario, quelli che accettano umilmente la loro con­dizione, pur se non è brillante, fidandosi di Dio, mettendosi nelle sue mani, sapendo che lui solo è immensamente più grande di qualsiasi persona.

Possiamo cogliere il messaggio per noi, l'atteggiamento che il Signore ci chiede. È l'atteggiamento che spalanca il nostro cuore al mistero di Dio, che ci rende semplici, non tronfi di quan­to possediamo, che ci fa capaci di affidamento, di abbandono, di attesa di Dio.

Misurarsi con le propria povertà

Ponendoci quattro rapidis­sime domande.

  1. Ho pretese esorbitanti?
  2. Mi lamento degli altri, voglio che tutti mi ser­vano, e quando non sono servito - a casa, in uffi­cio, al lavoro - sono pronto a criticare?
  3. So impormi qualche austerità?
  4.  So accettare quei piccoli segni di povertà che ci toccano un po' sempre?

Anche se abbiamo dei soldi, ci sono in realtà delle povertà che raggiungono tutti: la povertà della salute, piccole indisposizioni ecc. Certe volte ci arrabbiamo per queste cose, ci arrovelliamo, mentre potremmo viverle partecipando alla con­dizione di povertà di tanta parte dell'umanità e mettendoci in stato di ascolto e di disponibilità del messaggio di Gesù.

So accettare dunque qualche segno della mia povertà e fragilità? Segni semplici, come quello di perdere tempo per altri, per servizi che sem­brano inutili, quando per esempio si aspetta a lun­go la metropolitana o l'autobus stando al freddo; quando si fa la coda agli sportelli degli uffici, quan­do il treno è in ritardo, quando in ospedale si deve attendere per ore e ore il proprio turno di visita. Talora può essere giusto irritarci per le lentezze della burocrazia; ma non dobbiamo permettere che dentro di noi si instauri una situazione di amarez­za, di scontentezza, che alla fine rode il cuore.

Piuttosto, impariamo a dire: «Signore, in qual­che modo sto partecipando alla tua povertà, en­tro nella logica del non poter avere tutto e subito, comprendo che ho bisogno di tanto, ho biso­gno di tutto da te».