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Felicità e sofferenza - scheda 1

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FELICITÁ E SOFFERENZA

Siamo cercatori di felicità, appassionati e mai sazi. Questa inquietudine ci accomuna tutti. Sembra quasi che sia la dimensione più forte e consistente dell'esistenza, il punto di incontro e di convergenza delle differenze. Non può essere che così: è la nostra vita quotidiana il luogo da cui sale la sete di felicità. Nasce con il primo anelito di vita e si spegne con l'ultimo. Nel cammino tra la na­scita e la morte, siamo tutti cercatori di felicità.

Certo, questa esperienza comune si frastaglia in mille direzioni differenti. Tutti possiamo rico­noscerei nel bisogno di felicità: ma quale felicità cerchiamo? come la cerchiamo? quali strumenti ce ne assicurano il possesso? e gli altri, in questa appassionata ricerca, che posto hanno?

Qualcuno ha accusato la tradizione cristiana di opporsi alla voglia di felicità, di guardare ec­cessivamente al futuro dimenticando il presente. Qualche volta è stato contestato ai credenti in Cristo l'eccessivo prezzo da pagare per assicura­re la felicità, o si sono loro rimproverati i modelli dal sapore rinunciatario, persino un poco maso­chista, presentati come condizione per raggiun­gere la felicità. Qualcuno è arrivato alla decisione di dover liberare l'uomo da Dio per restituirgli il diritto alla felicità.

Le provocazioni ci sfidano e ci aiutano a pen­sare, facendoci riscoprire alla radice dell'espe­rienza cristiana la figura di Gesù, che ci ha offer­to il volto di un Dio amante della vita e della feli­cità dell'uomo. Peraltro, le crisi nel rapporto tra vita e felicità non riguardano solo noi cristiani. Chiunque ama la vita e cerca la gioia duratura per sé e per gli altri, non riuscirà certamente ad ac­contentarsi di proposte che legano la felicità uni­camente al possesso, alla conquista, al potere, al solo piacere, all'egoismo personale o di gruppo.


L'esperienza della fragilità

Come credenti, abbiamo una convinzione irrinunciabile, che ci viene dalla nostra esperienza cristiana. Su di essa cerchiamo il confronto con tutti coloro che preferiscono la vita alla morte e cercano la felicità come la qualità profonda di questa stessa vita. La vita è bella nonostante tutte le prove e le disavventure, perché esistiamo e sperimentiamo l'amore.

Non per tutti, certo, è così. La vita è segnata in tutte le sue fasi e le sue forme dalla fragilità: la fra­gilità del nascituro, del bambino, dell'anziano, del malato, del povero, dell'abbandonato, dell'emar­ginato, dell'immigrato, del carcerato. In tutte le età ci sono sofferenze fisiche, psichiche, sociali. Come avviene per la felicità, anche l'esperienza del dolore ci accomuna tutti.

Come in ogni situazione umana si sperimenta la fragilità, così ogni ambiente vitale è frutto di un fragile equilibrio. Nei volti delle famiglie ci sono spesso più lacrime da asciugare che sorrisi da raccogliere. Nella vita ci sono sofferenze che ar­rivano contro ogni nostra aspettativa e ci sono an­che sofferenze che nascono dai nostri errori e dalle nostre colpe, quelle che costruiamo con le nostre mani: quando, ad esempio, diamo la pre­valenza all'avere sull'essere; quando ci carichia­mo di cose inutili; quando diamo la precedenza alle cose sulle persone, agli interessi materiali su­gli affetti.

La fragilità rimane una grande sfida: da sem­pre essa ha suscitato interrogativi, problemi, dubbi. Un personaggio della Bibbia è diventato una sorta di riferimento per coloro che hanno il coraggio di riflettere sul dolore. Si tratta di Giobbe: con il suo nome chiamiamo chi soffre in­giustamente e chi giustamente ha motivi per la­mentarsi. Con Giobbe ci chiediamo: perché dob­biamo soffrire e morire?

Molti non conoscono le parole che la Bibbia mette sulle labbra di Giobbe nel momento in cui il contatto con il dolore diventa bruciante. Parole simili, forse, le abbiamo gridate noi stessi, una o tante volte:


Perisca il giorno in cui nacqui...

Perché non sono morto

fin dal seno di mia madre

e non spirai appena uscito dal grembo?

Perché due ginocchia mi hanno accolto,

e due mammelle mi allattarono? ...

Come lo schiavo sospira l'ombra

e come il mercenario aspetta il suo salario,

così a me sono toccati mesi di illusione

e notti di affanno mi sono state assegnate...

Ricordati che un soffio è la mia vita, il mio occhio non rivedrà più il bene.

(Giobbe 3,3.11-12; 7,2-3.7)


Quale felicità?

Facciamo fatica ad accettare la scuola della sofferenza per scoprire che cosa sia la vita e la fe­licità. Nonostante tutte le nostre riflessioni e le nostre proteste, infatti, la debolezza, il dolore, la morte rimangono un mistero.

La cultura moderna, non sapendo dare una ri­sposta a queste sfide, cerca di nasconderle con l'ebbrezza del consumismo, del piacere, del di­vertimento, del non pensarci. In tal modo, però, si nega il significato profondo della debolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il pe­so di sofferenza, sia il valore e la dignità: e questo rende ulteriormente aridi e induce a vivere in mo­do superficiale.

L’esperienza della fragilità, del limite, della ma­lattia e della morte può insegnarci alcune cose fon­damentali. La prima è che non siamo eterni: non siamo in questo mondo per rimanerci per sempre; siamo pellegrini, di passaggio. La seconda è che non siamo onnipotenti: nonostante i progressi del­la scienza e della tecnica, la nostra vita non dipende solo da noi, la nostra fragilità è segno evidente del limite umano. Infine, l'esperienza della fragilità ci insegna che i beni più importanti sono la vita e l'amore: la malattia, ad esempio, ci costringe a met­tere nel giusto ordine le cose che contano davvero.

La fragilità è una grande sfida anche per la fe­de nel Dio di Gesù Cristo. Il Signore ci ha creati per la vita, per la felicità. Perché, allora, permette il dolore, l'invecchiamento, la morte? Quante do­mande di fronte a un dolore o a un lutto che fa sanguinare il cuore! Si può perfino dire che la sof­ferenza e la morte sono la più grossa sfida contro Dio. C'è chi si è dichiarato « ateo » per amore di Dio, per giustificare la sua assenza e il suo silen­zio davanti al dolore innocente.


Che cosa possiamo sperare?

Le domande si moltiplicano. Ciascuno ha le proprie. A pensarci bene, cambiano le parole, ma il grido resta, comune e condiviso da tutti: abbiamo una gran voglia di vita, di felicità, di sicurezza e di tranquillità, e il dolore, la fragilità e la morte sem­brano fatti apposta per distruggere tutto questo. Dobbiamo rassegnarci? Spegnere la voglia di vita, raffreddando i nostri slanci? Dobbiamo riconosce­re che questa non è la nostra casa e rimandare tut­to a un dopo, a quando saremo finalmente a casa?

Ma questa casa, lontana e non sperimentabile, c'è davvero o resta un'illusione, più o meno com'è per tanti tentativi che costruiamo con le nostre pretese e che ci lasciano l'amaro in bocca?

Qualcuno va oltre, pensando: smettiamola di so­gnare e accontentiamoci di quello che possiamo avere tra le mani. Pazienza, poi, se dobbiamo sot-trarlo, violentemente o astutamente, ad altri. Questa è la vita. Non è più saggio rassegnarsi?

La nostra esperienza quotidiana è spesso ten­tata di cadere nella rassegnazione e nel cinismo, eppure si spalanca continuamente verso una for­te necessità di speranza. Ma che cosa significa sperare? La speranza ha a che fare con la gioia di vivere. Suppone un futuro da attendere, da pre­parare, da desiderare. Sentiamo che la speranza richiede e suscita unità nel cuore: da senso e mo­tiva ogni nostro sentimento, ogni nostra aspira­zione, ogni nostro progetto. Promuove anche unità nella storia: nelle tante cose che pensiamo e che facciamo ogni giorno ci può essere un filo conduttore che collega e illumina tutto quanto. Se c'è speranza, c'è pazienza e c'è la vigilanza che sa vagliare e spinge all'impegno in ogni cosa.

Non si può vivere senza speranza: sarebbe co­me vivere senza riuscire a dare una prima inizia­le risposta all'interrogativo « perché sono al mon­do »? Tutti abbiamo bisogno di un orizzonte di senso, per dire qualcosa di vero sul nostro futuro. Ha senso sperare che ciò che desideriamo si at­tui; così pure ha senso sperare di avere successo nei singoli aspetti su cui puntiamo. C'è una spe­ranza a livello personale e c'è una speranza a li­vello storico-cosmico. Il tempo e le circostanze sono importanti per dare un contesto e un conte­nuto alle nostre speranze.

C'è una speranza che nasce e cresce grazie ai rapporti con le persone; anzi certi rapporti, aperti al dialogo e alla collaborazione, generano speran­za, perché ci fanno sentire accolti e cercati e ci stimolano all'azione. Ma è possibile pensare e de­siderare la speranza come dono che viene a noi in modo imprevedibile, come intervento non soltan­to umano? Un dono che trascende le nostre pos­sibilità, la nostra progettualità, i nostri orizzonti?

Nei momenti più felici, come in quelli più profondi, anche quando sono sofferti, sogniamo una speranza che crede e che ama: la speranza di chi si sente amato, cercato, sostenuto nel quoti­diano, in un crescendo di senso, di gioia, di ope­rosità costruttiva, che va oltre la fine di tutto. È questa la speranza che viene da Dio?