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Mar
28
2011

Catechesi quaresimale adolescenti del 28 Marzo 2001- la ricerca della vera felicità

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Catechesi adolescenti.

Alla ricerca della vera felicità….

«BEATI I POVERI IN SPIRITO»

                 Noi pensiamo della felicità:

Secondo me rispondere alla domanda: “stai raggiungendo la felicità?” non è facile perché io ritengo che la felicità non è duratura ma dura solo un breve momento perché ci sarà sempre qualcosa che la ostacolerà. Quindi ora potrei dire che la felicità la sto raggiungendo ma non so se la raggiungerò pienamente. Inoltre l’essere felici, secondo me, è difficile raggiungerlo da sola ma dobbiamo sempre aiutarci con qualcosa  o qualcuno.

Non so che tipo di felicità io sto raggiungendo, ma sicuramente sto cercando di raggiungerla. Qualsiasi scelta che faccio, la faccio per essere felice, o per rendere felice qualcuno.

Per me la felicità è un momento permanente di soddisfazione della propria vita, in cui si è felici di come si vive, di ciò che si fa e delle relazioni con gli altri.  La felicità è una cosa unica, ma che si può raggiungere in diversi modi, anche attraverso gli altri.

 

Gesù proclama «Beati i poveri in spirito, per­ché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3).

Sul tema della povertà si parla molto, ma lo si comprende poco. La gente pensa che povertà evangelica significhi semplicemente disprezzo dei beni della terra, magari addirittura esaltazione della indigenza, della miseria, dell'accattonaggio. Talora, la ricerca della povertà evangelica diventa causa di tensioni tra i cristiani che si chiedono: dov'è la povertà della Chiesa? In quale modo bi­sogna essere poveri?

 

Chi sono i poveri?

 

II versetto di Matteo è brevissimo: «Beati i po­veri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».

 

1. Chi sono dunque questi poveri? Il termine greco, usato nella pagina evangeli­ca, è ptochòi e ha un corrispondente nella lingua italiana: la parola 'pitocchi', poco usata però espressiva. Essa indica coloro che non hanno nul­la, i mendicanti, gli indigenti, i poveri nel senso materiale.

Nel nostro testo, tuttavia, la parola è accompa­gnata da una qualificazione importante: in spirito.

Gesù, in realtà, riprende la parola 'povero' non nel senso fisico di indigenza totale o quasi totale, che ha nel vocabolario corrente, bensì nei suoi valori interiori.

'Poveri', nell'accentuazione soprattutto di Matteo, indica coloro che non contano sulle proprie for­ze perché hanno ben poco di cui gloriarsi o a cui appoggiarsi, ma sono certi del Signore, della sua bon­tà, della sua potenza, della sua misericordia.

    2. Si comprende, di conseguenza, la seconda par­te del versetto: «perché di essi è il regno dei deli».

Avendo posto in Dio ogni speranza, non fi­dandosi di sé, sono disponibili alla buona notizia di Gesù, al suo Vangelo. Chi possiede molto, materialmente e moral­mente, chi è sicuro di sé, barricato nei suoi pri­vilegi e in tutto ciò che ha e che è, teme sempre di essere disturbato, di veder vacillare il trono che si è conquistato. Si chiude allora, come un riccio, di fronte alla proposta nuova e coraggio­sa di Cristo Gesù.

Chi invece ha imparato a non contare su se stesso, chi ha imparato a conoscere la fragilità umana e quella di tutte le realtà cui cerchiamo di aggrapparci, è aperto alla novità del regno.

 

L'atteggiamento che il Signore ci chiede

Qual è dunque il messaggio della prima beati­tudine?

 

1. «Se voi non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 2).

I bambini. Il vocabolo greco paidiòn significa quel ragazzino tra i tre e gli otto anni che si fida, che è semplice, col quale si gioca volentieri, che si abbandona in tutto ai genitori, che si lascia fare. Indica dunque l'atteggiamento dell'uomo di fron­te a Dio per entrare nel regno, per riceverlo.

 

2. «Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25).

I piccoli vuol dire che, a preferenza di coloro che credono di sapere mol­to, di essere ricchi di cultura e di dottrina, di non aver bisogno  imparare alcunché da nessuno, le realtà di Dio sono rivelate a quelli che sanno di sapere poco e di dover imparare molto.

 

3. «Ha guardato all'umiltà della sua serva... ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umi­li» (Mt 19,30).

Gli umili. Quelli che accettano umilmente la loro con­dizione, pur se non è brillante, fidandosi di Dio, mettendosi nelle sue mani, sapendo che lui solo è immensamente più grande di qualsiasi persona.

Possiamo cogliere il messaggio per noi, l'atteggiamento che il Signore ci chiede. È l'atteggiamento che spalanca il nostro cuore al mistero di Dio, che ci rende semplici, non tronfi di quan­to possediamo, che ci fa capaci di affidamento, di abbandono, di attesa di Dio.

Misurarsi con le propria povertà

Ponendoci quattro rapidis­sime domande.

  1. Ho pretese esorbitanti, penso che tutto mi sia dovuto, cosa faccio per guadagnarmi le cose, la vita?
  2. Sono consapevole che non sono Dio in terra e che la mia vita ha bisogno di altri?
  3. Mi lamento degli altri, voglio che tutti mi ser­vano, e quando non sono servito - a casa, al lavoro, a scuola con gli amici - sono pronto a criticare?
  4.  So accettare quei piccoli segni di povertà che ci toccano un po' sempre?

Anche se abbiamo dei soldi, ci sono in realtà delle povertà che raggiungono tutti: la povertà della salute, piccole indisposizioni ecc. Certe volte ci arrabbiamo per queste cose, ci arrovelliamo, mentre potremmo viverle partecipando alla con­dizione di povertà di tanta parte dell'umanità e mettendoci in stato di ascolto e di disponibilità del messaggio di Gesù.

So accettare dunque qualche segno della mia povertà e fragilità? Segni semplici, come quello di perdere tempo per altri, per servizi che sem­brano inutili, quando per esempio si aspetta a lun­go la metropolitana o l'autobus stando al freddo; quando si fa la coda agli sportelli degli uffici, quan­do il treno è in ritardo, quando in ospedale si deve attendere per ore e ore il proprio turno di visita. Talora può essere giusto irritarci per le lentezze della burocrazia; ma non dobbiamo permettere che dentro di noi si instauri una situazione di amarez­za, di scontentezza, che alla fine rode il cuore.