BRANO INTRODUTTIVO ALLA QUARESIMA GIOVANI E ADOLESCENTI.
Guardatevi dal praticare la vostra giustizia nel cospetto degli uomini per esser osservati da loro; altrimenti non ne avrete premio presso il Padre vostro che è nei cieli. 2 Quando dunque fai limosina, non far sonar la tromba dinanzi a te, come fanno gl’ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. Io vi dico in verità che cotesto è il premio che ne hanno. 3 Ma quando tu fai limosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra, 4 affinché la tua limosina si faccia in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. 5 E quando pregate, non siate come gl’ipocriti; poiché essi amano di fare orazione stando in piè nelle sinagoghe e ai canti delle piazze per esser veduti dagli uomini. Io vi dico in verità che cotesto è il premio che ne hanno. 6 Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta, e serratone l’uscio fa’ orazione al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. 7 E nel pregare non usate soverchie dicerie come fanno i pagani, i quali pensano d’essere esauditi per la moltitudine delle loro parole. 8 Non li rassomigliate dunque, poiché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate. 9 Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; 10 venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà anche in terra com’è fatta nel cielo. 11 Dacci oggi il nostro pane cotidiano; 12 e rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori; 13 e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno. 14 Poiché se voi perdonate agli uomini i loro falli, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; 15 ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà i vostri falli. 16 E quando digiunate, non siate mesti d’aspetto come gl’ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. Io vi dico in verità che cotesto è il premio che ne hanno. 17 Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e làvati la faccia, 18 affinché non apparisca agli uomini che tu digiuni, ma al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.
Giustizia vera e falsa (6, 1-18)
Matteo continua a sviluppare il tema della giustizia del discepolo superiore alla giustizia degli scribi e farisei (5,20). Dopo aver criticato la giustizia degli scribi, l’evangelista critica ora la giustizia dei farisei.
Matteo elenca le tre pratiche classiche dei farisei: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù non le rifiuta, ma vuole che siano compiute con spirito diverso. E’ proprio questo spirito che distingue il discepolo dal fariseo. Quali sono le caratteristiche più importanti di queste tre pratiche?
Anzitutto, è già significativo che vengono raggruppate insieme: il culto deve prolungarsi nella carità, e la penitenza deve essere un privarsi di qualcosa a beneficio di altri. In secondo luogo, è richiamata ripetutamente la necessità della retta intenzione. Bisogna cercare la ricompensa di Dio, non quella degli uomini: bisogna agire nel segreto, senza dare spettacolo.
La giustizia cristiana esige che le opere buone vengano compiute senza tenerne la contabilità. La vera giustizia esige che la destra non sappia ciò che fa la sinistra. Gesù in sostanza non rifiuta né l’elemosina né il digiuno né la preghiera, ma vuole che tutto ciò sia compiuto con spirito di gratuità.
La testimonianza non deve confondersi con la teatralità. I discepoli hanno la faccia normale e gioiosa, perché il distacco che la sequela esige non è un peso, ma una gioia: non è una perdita, ma il centuplo.
Quanto detto finora non è sufficiente a descrivere l’originalità cristiana. Matteo colloca in questa sezione il “Padre nostro”.
Luca riporta le parole di Gesù in un contesto in cui si vuole insegnare la preghiera a gente che non sa nulla di preghiera: scrive il suo vangelo per una comunità che proviene dal paganesimo. Matteo invece riporta il testo in una sezione che ha lo scopo di correggere le deviazioni dei credenti già abituati a pregare: egli scrive per una comunità che proviene dal giudaismo. Il problema di Matteo dunque non è se pregare ma come pregare. Nella preghiera non sono le parole che contano, neppure quando si tratta delle parole di Cristo. La preghiera è unicamente espressione di dipendenza, di povertà, e le parole non hanno mai un senso magico come invece pensano i pagani (6, 7-8).
“Padre”: è il nome con cui Gesù si rivolge costantemente a Dio, ed esprime la sua filiazione. Il discepolo ha il diritto di pregare come Cristo, in qualità di figlio. Sta in questo nuovo rapporto l’originalità cristiana, ma a differenza di Luca, Matteo non si accontenta di questo. Egli aggiunge al nome Padre l’aggettivo “nostro”, esplicitando in tal modo l’aspetto comunitario. E aggiunge “che sei nei cieli”, richiamando in tal modo la trascendenza e la signoria di Dio. La preoccupazione dell’evangelista è chiara: ricordare non solo la paternità di Dio, ma anche la sua trascendenza: Dio è vicino e lontano, come noi e diverso da noi, Padre e Signore. Ogni autentico rapporto religioso tiene conto di ambedue questi elementi.
“Sia santificato il tuo nome”: il verbo è al passivo, secondo l’uso ebraico ciò significa che il protagonista è Dio, non l’uomo. L’espressione “santificare il nome” deve essere intesa alla luce dell’AT, in particolare di Ez 36, 22-29. Non indica riconoscimento generico di Dio, né tanto meno una lode fatta di culto e di parole, ma un permettere a Dio di svelare, nella storia della salvezza e nella comunità, il suo volto (“Sia svelato il tuo nome, il tuo volto). In sostanza, il discepolo prega perché la comunità diventi un segno trasparente della presenza liberante di Dio.
“Venga il tuo regno”: per capire questa invocazione bisogna rifarsi a tutta la predicazione di Gesù, incentrata appunto sull’annuncio del Regno. Il Regno ha una presenza oggi, ma ha, nello stesso tempo, un compimento alla fine: questo è molto chiaro nella predicazione di Gesù e nell’attesa delle prime comunità. Ma l’uso del verbo aoristo (“venga”) sta a indicare che qui si ha di mira il suo stadio ultimo, escatologico (1 Cor 15,28). La venuta del Regno comprende la vittoria definitiva sul male, sulla divisione, sul disordine e sulla morte. Il discepolo chiede e aspetta tutto questo. Bisogna però ricordare che la preghiera implica contemporaneamente un’assunzione di responsabilità: il discepolo attende il Regno come un dono e insieme chiede il coraggio di costruirlo.
“Sia fatta la tua volontà”: questa invocazione non fa che interiorizzare le prime due, sottolineando maggiormente il loro aspetto morale. Si tenga presente che per “volontà di Dio” non si intende semplicemente il complesso dei comandamenti, ma piuttosto il “disegno di salvezza” che deve realizzarsi nella storia. E’ importante la precisazione “come in cielo così in terra”, cioè bisogna anticipare qui in terra la vita del nuovo mondo.
“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La richiesta del pane è la più umile, ma sta al centro, e questo ne indica l’importanza. Il pane è nostro, è frutto del nostro lavoro, eppure è anche nel contempo dono di Dio. C’è un senso di comunione: si prega per il pane comune. E c’è, soprattutto, un senso di sobrietà: si chiede per oggi il pane sufficiente, nulla più.
“Rimetti a noi i nostri debiti”. Il Regno è anzitutto l’avvento della misericordia. Il termine debito non è il più indicato per spiegare il peccato, dal momento che - come traspare dalla parabola del figlio prodigo - il peccato è soprattutto un tradimento dell’amore di Dio, un sottrarsi alla presenza del Padre, una sfiducia nei suoi confronti. Potrebbe sembrare, a prima vista, che il nostro perdono fraterno condizioni il perdono di Dio. In realtà è il contrario. Si legga la parabola di Mt 18, 23-35: il contrasto fra i due quadri della parabola intende mostrare quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo perdonato.
“Non ci indurre in tentazione”. Il pensiero corre spontaneamente alle piccole e svariate tentazioni quotidiane. Però la tentazione del discepolo non è tutta lì: è più profonda. E’ simile alla tentazione di Cristo (4, 1-11): è la sfiducia e lo scoraggiamento di fronte a un Dio che appare troppe volte imprevedibile. La vita del Cristo fu un continuo confronto con Satana. Il discepolo chiede di far propria la vittoria del Maestro. Anziché tradurre “liberaci dal male” è forse meglio tradurre “liberaci dal maligno”.
La preghiera si apre con il Padre e termina con il maligno, l’avversario. L’uomo è conteso, sollecitato da una parte e dall’altra. Nessun pessimismo però, il discepolo sa che Cristo ha già vinto Satana.
Nella sezione precedente (in polemica con gli scribi) Matteo aveva messo in luce la carità. Ora (in polemica con i farisei) mette in luce una sua concreta manifestazione: il perdono.